GNGTS 2014 - Atti del 33° Convegno Nazionale
GNGTS 2014 S essione 2.3 351 GEOETICA E RISCHIO: DALLA PERCEZIONE DEL MITO DELLE SOCIETÀ ARCAICHE ALL’ERA DIGITALE POSTMODERNA V. Dattilo, A. Ruffolo, M. Bernardo, F. De Pascale, F. Muto Università della Ca������� ������� labria, Cosenza Catastrofi naturali. Rischio e perdita della presenza. Sin dalle culture più antiche l’uomo, in ogni istante della vita quotidiana, dalla culla alla bara e in qualsiasi civiltà, è esposto al rischio di non esserci, ossia, al rischio della catastrofe del mondo e di sé. Si tratta di particolari momenti dell’esistenza connessi non solo a mutamenti economici e sociali, per esempio il corso di una guerra, ma si tratta anche di momenti connessi a catastrofi naturali imprevedibili che si annunziano senza che l’uomo possa determinarli, per esempio i maremoti. Apartire da tale presupposto, affronteremo il nodo cruciale della crisi o perdita della presenza, ossia, del rischio di sé di non mantenersi davanti alla storia in momenti critici dell’esistenza, limitandoci ad analizzare le varie forme di difesa da questo rischio, rappresentato da catastrofi naturali (per esempio maremoti, eruzioni vulcaniche) presso i popoli cosiddetti primitivi, occupandoci del problema dal punto di vista antropologico-filosofico. A questo proposito recupereremo il pensiero storico-religioso del filosofo italiano Ernesto de Martino (1908-1965) (Fig. 1), trattando concetti filosofici come reperto antropologico, operazione che mira a far conoscere meglio le varie forme di difesa dal rischio di non esserci nella storia, anche in culture molto distanti da quella occidentale, come emerge da alcune letture critiche raccolte e pubblicate nell’opera postuma, La fine del mondo. Contributo alle analisi delle apocalissi culturali (1977). In particolare, ci soffermeremo sulla rappresentazione di una fine del mondo collegata all’esperienza di catastrofi naturali presso le culture tradizionali. Tra gli esempi riportati dal filosofo italiano appare illuminante la lettura critica che concerne il saggio di Rudolf Lehmann, Weltuntergang und Welterneurung im Glauben schriftloser Völker (1939), autore citato in un breve testo dell’opera postuma di de Martino, perché l’opera contiene alcuni racconti di fine del mondo attestati da Stephan Lehner, citato da Lehmann, presso gli indigeni. In particolare, presso gli indigeni Namatanai nel nuovo Meclemburgo centrale, regione Laur, c’è un riferimento a catastrofi cosmiche future, ricalcate su esperienze di catastrofi naturali: «il mare che si richiuderà sull’isola per sempre (maremoti), l’oscurarsi del sole e la notte senza fine (pioggia di cenere durante eruzione vulcanica» (de Martino, 1977, p. 368). Un altro esempio di rappresentazione di fine del mondo è riscontrabile presso i Kenta o Kintak Bong’ e presso gli indigeni delle isole Caroline: «Namoluk esegue la fine del mondo su ordine dell’essere supremo a motivo della colpevolezza degli uomini, e utilizzando tuono, uragano, fulmini e due esseri supremi, uno dei quali stringe da tutte le parti terra e mare mentre l’altro getta grandi massi dal mare sulla terra. Segue poi la distruzione totale» (de Martino, 1977, p. 369). Da questi racconti emerge il fatto che la fine viene rappresentata come distruzione, come idea di crollo del mondo, ricollegata a catastrofi cosmiche già vissute (maremoti, eruzioni vulcaniche), rimandando la spiegazione di tali catastrofi ad un elemento che ricorre frequentemente non soltanto nelle tradizioni primitive: la punizione da parte di un essere supremo, per colpe derivanti da trasgressioni ai suoi ordini. Anche lo stesso James George Frazer (1854-1941), uno dei padri fondatori dell’antropologia sociale, nella sua opera Fig. 1 – Il filosofo Ernesto De Martino (1908- 1965). Fonte: www.fondazionesardinia.eu.
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