GNGTS 2014 - Atti del 33° Convegno Nazionale
352 GNGTS 2014 S essione 2.3 principale, Il ramo d’oro (1911), mostra come i primitivi credono qualche volta, come abbiamo visto nel caso succitato di Namoluk, che la loro salvezza e persino quella del mondo sia legata alla vita di uno di questi uomini-dèi o incarnazioni umane della divinità. Grazie ai suoi studi è possibile, inoltre, individuare nelle culture cosiddette primitive, in particolare in alcune tribù dell’Africa, casi di uccisione dell’uomo-dio a causa dell’affievolirsi graduale dei suoi poteri e della loro estinzione finale con la morte; uccisione resa necessaria per evitare catastrofi o il crollo del mondo con il crollare o la rovina dell’uomo-dio: «Il popolo del Congo crede, [...], che, se il loro pontefice, il Chitomé, dovesse morire di morte naturale, il mondo perirebbe e la terra, che è sostenuta soltanto da lui con il suo potere e il suo merito, sarebbe immediatamente annientata. Per conseguenza, quando egli si ammala e sembra che debba morire, l’uomo che è destinato a succedergli entra nella casa del pontefice con una corda o una mazza e lo strangola o lo accoppa» (Frazer, 1911; trad. it. 2012, p. 319). L’usanza di sacrifici per evitare catastrofi, così come l’usanza di mettere a morte i re divini ai primi sintomi di infermità o di vecchiaia, considerati come divinità incarnate dalle quali dipende implicitamente il benessere degli uomini e del mondo, sembra abbia prevalso in questa parte dell’Africa sino ai tempi moderni. Il destino di sé e del mondo è legato al destino dei loro re sacri o divini: «Per garantirsi contro queste catastrofi è necessario mettere a morte il re mentre egli è ancora nel pieno fiore della sua divina virilità, affinché la sua sacra vita si possa trasmettere intatta al suo successore, rinnovarsi nella sua giovinezza e restar eternamente giovane e fresca per successive trasmissioni, attraverso una perpetua vita di vigorose incarnazioni, come pegno e garanzia che gli uomini e gli animali possano in ugual maniera rinnovare la loro giovinezza con una perpetua successione di generazioni: che la semina e la mietitura, l’estate e l’inverno, la pioggia e il sole non verranno mai a mancare» (Frazer, 1911, pp. 692-693). Ritornando a de Martino, secondo il filosofo italiano, a caratterizzare il comportamento dei primitivi ogni qualvolta ci si trovi dinanzi al rischio di non esserci, ossia, dinanzi al rischio della fine del mondo e dell’uomo è la ripetizione (Fig. 2). Ripetizione di cosa? Di certi episodi critici (la prima catastrofe, la prima caccia, la prima pesca, il primo parto) o di certi passaggi critici, come il passaggio dal caos al cosmo. Questa serie di atti o di episodi, hanno valore di archetipi , ossia, di modelli, di atti esemplari, anche slegati dalla religiosità, che vengono ripetuti per la sopravvivenza, hanno cioè un carattere protettivo in quanto rendono possibili una serie di operazioni di difesa della presenza rispetto ai momenti critici: «la ripetizione rituale opera in funzione di ripresa e di reintegrazione, rispetto agli episodi critici possibili, al negativo della esistenza attuale o futura, la ripetizione rituale opera in funzione di occultamento o di attenuazione della storicità del divenire, in modo da Fig. 2 – Schema tratto da: De Martino E.; 1995: Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, Argo Editore, Lecce.
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