GNGTS 2017 - 36° Convegno Nazionale

XXVIII GNGTS 2017 L ectiones M agistrales Faglie, faglie attive, faglie capaci, faglie sismogenetiche: cosa abbiamo imparato negli ultimi 30 anni? G. Valensise Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Roma Cosa ha a che vedere la Geologia con la pericolosità sismica? Come può la storia geologica del pianeta, che utilizza un righello la cui divisione più sottile vale già 10.000 anni, essere utile a stabilire dove e con che violenza colpiranno i terremoti del futuro? Come si può pensare di prescindere dalle osservazioni strumentali per capire la sismicità del futuro? Quando oltre trenta anni fa ho iniziato il lavoro che ancora oggi svolgo, e che non saprei definire altro che con la ironica espressione di “cacciatore di faglie”, la gran parte della comunità scientifica nazionale - e in parte anche di quella europea - si poneva queste domande. Non un secolo fa, ma appena tre decenni fa, dimentichi di quello che i padri della Geologia dei terremoti, da G.K. Gilbert a H.F. Reid, avevano già detto e scritto tra la fine dell’800 e il 1910, anno di pubblicazione della cosidetta teoria dello elastic rebound . In una presentazione al Meeting AIQUA che si è tenuta a Parma nel 1997 - ovvero “appena” 20 anni fa, sostenni che “ ...per il geologo un forte terremoto è quell’occasione unica durante cui vengono illustrati in modo istantaneo l’andamento e l’entità degli effetti in superficie della dislocazione su una faglia profonda ”. Il nostro Database of Individual Seismogenic Sources, o DISS, muoveva i primi passi proprio in quegli anni, fondandosi ampiamente proprio su questo principio, uno dei capisaldi del lavoro del geologo in aree attive. Un principio importante soprattutto per il suo reciproco, ovvero la possibilità di identificare e caratterizzare le grandi faglie sismogenetiche osservando nella geologia e nel paesaggio l’accumularsi della deformazione che esse causano, terremoto dopo terremoto. E non si può negare che negli ultimi tre decenni lo studio dei terremoti ci ha consentito di comprendere aspetti dell’evoluzione geologica recente della penisola che non erano stati colti nella loro interezza - o non erano stati colti affatto - dalla geologia tradizionale. Il trentennio a cui faccio riferimento in effetti inizia ancora prima, con il terremoto del 23 novembre 1980, un evento catastrofico che i geologi dell’epoca fecero molta fatica a inquadrare nei modelli allora accettati. Ma forse bisognerebbe spostarsi subito al 1984, quando Westaway e Jackson, due sismologi inglesi, il secondo dei quali già molto affermato, pubblicarono sulla prestigiosa rivista Nature un accurato resoconto degli effetti in superficie di quel terremoto catastrofico avvenuto tra le desolate cime dell’Appennino meridionale (Westaway e Jackson, 1984). Con molto ritardo si apriva una fase di studio che avrebbe non solo rivoluzionato gli studi di tettonica attiva in Italia, ma avrebbe dato vita a un nuovo settore disciplinare a cui si dedicarono con passione ricercatori del CNR, dell’ENEA, dell’INGV (allora ING) e di varie università, molti dei quali riuniti nel Gruppo Nazionale per la Difesa dei Terremoti (GNDT), a sua volta erede della grande tradizione del Progetto Finalizzato Geodinamica (PFG). Quasi a cercare di recuperare il tempo perduto uscirono ampie sintesi degli effetti in superficie dei grandi terremoti del passato, come nel caso dello studio condotto da Serva et al. (1986) sul terremoto di Avezzano del 1915, e fiorirono ricerche sui terremoti dello Stretto di Messina del 1908 (Mulargia e Boschi, 1983), di Gubbio del 1984 e della Valcomino dello stesso anno. Ma il vero elemento di rottura restava il terremoto dell’Irpinia, che in pochi secondi aveva messo sotto gli occhi dei geologi una serie di testimonianze della tettonica attiva del tutto incontrovertibili, ma al tempo stesso impossibili da ricavare attraverso un’analisi geologica convenzionale. Lo studio dettagliato condotto da Pantosti e Valensise (1990) concluse che il terremoto era stato generato da una faglia - segmentata - lunga complessivamente quasi 40 km che per gran parte della sua estensione non coincideva con faglie mappate in precedenza, e per di più mostrava - in alcuni settori - una sorprendente ma chiara tendenza a “rovesciare” la topografia, sollevando le valli e ribassando le dorsali. Con la sola - e forse casuale - eccezione del versante orientale del Monte Cervialto, il terremoto non aveva riattivato neppure passivamente la faglie note,

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