GNGTS 2017 - 36° Convegno Nazionale

38 GNGTS 2017 S essione 1.1 Fig. 1 - Veduta verso ovest (Norcia) della galleria dislocata il 30 ottobre 2016. Si noti il gradino di circa 20 cm della sede stradale e dei marciapiedi (foto PG, 30 Ottobre). Come noto, in Italia, così come in gran parte delle nazioni a sismicità elevata, la fagliazione di superficie è un fenomeno fortunatamente assai raro, se non altro perché associato, salvo eccezioni, a terremoti della crosta superiore di elevata magnitudo (Mw>6). La probabilità che la fagliazione interessi un manufatto antropico è poi ancora minore, in quanto l’intersezione in superficie del piano di faglia è quasi sempre poco più di un sottile e discontinuo fascio di lineazioni, tanto più sottile e discontinuo quanto minore è la classe di magnitudo caratteristica nel contesto geodinamico in questione. Nel nostro Paese, per esempio, i casi noti di strutture dislocate da faglie capaci sono pochissimi. Prima del terremoto aquilano del 2009 - quando la faglia di Paganica-San Demetrio interessò numerose costruzioni moderne ed il grosso acquedotto del Gran Sasso, tagliandolo letteralmente in due - i casi noti si contavano sulle dita di una mano, e tutti erano connessi a forti e sconosciuti terremoti dell’antichità, individuati solo tramite studi di tettonica attiva e analisi paleosismologiche (Galli e Galadini, 2001, 2003; Galli et al. , 2010). Naturalmente, è più facile che ad essere interessato da questo fenomeno sia un manufatto non puntuale, come un edificio, ma un’infrastruttura a sviluppo lineare. Di fatto, in letteratura, vi sono diversi casi di fagliazione di acquedotti, strade, ferrovie e gasdotti ma, stranamente, pochissimi riguardanti le gallerie stradali (p.e., Kontogianni e Stiros, 2003). Tra questi, i pochi che ci sovvengono sono quella di Wrights, in California (terremoto del 1906, Mw 7.7; Prentice e Ponti, 1997) e di Kern County, sempre in California (terremoto del 1952, Mw 7.5; SCEDC, 2017). In Italia, nessuno. Il contesto deformativo del terremoto del 2016. Come noto, i terremoti che hanno colpito l’Appennino centrale nell’agosto-ottobre 2016, causando un’estesa distruzione in decine di località (Io XI MCS; Galli et al. , 2017), si sono originati dalla rottura progressiva del sistema di faglie dirette del Monte Vettore (Calamita et al. , 1992; Galadini e Galli, 2000). Dalle profondità ipocentrali, la dislocazione ha raggiunto la superficie sia in occasione dell’evento del 24 Agosto (Mw 6.2: RCMT, 2016; segmenti sud del sistema) che in quello del 26 ottobre (Mw 6.1: RCMT, 2016; segmenti nord del sistema), ma sopratutto con il terremoto del 30 ottobre (Mw 6.57, RCMT, 2016), quando l’intero sistema di faglie si è riattivato, generando circa 25 km di fagliazione di superficie. L’attivazione in regime di estensione di questo settore dell’Appennino della faglia del Monte Vettore ha comportato lo sprofondamento decimetrico nel blocco di tetto di un enorme volume crostale, esteso circa 40 km in direzione NNW-SSE, circa 10 km in direzione WSW- ESE, e profondo 10 km. A grandi linee, è possibile pensare ad un prisma di rocce del volume grossomodo pari a 4000 km 3 . Nella sua “discesa” verso WSW, tale prisma è stato guidato ad oriente dalla master fault e da una serie di faglie sintetiche ed antitetiche più o meno radicate al piano principale e in parte già note e studiate in passato (Galadini e Galli, 2003). A fronte di una dislocazione media in profondità di 1.3 m, con picchi sino a 2.6 m (Chiaraluce et al. , 2017),

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